Hybris e logos, modernismo urbanistico, crisi geologica e il paradigma per rifondare il territorio
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- 25 set
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Autore: Nicola Rosso Borghero - SOBORNOST - 25/09/2025
DOI 10.17605/OSF.IO/NCBPG
L'urbanizzazione modernista e post-modernista, più che un semplice processo di edificazione, ha rappresentato una frattura epistemologica e ontologica nel rapporto tra l'uomo e il suo ambiente costruito. Questo fenomeno non si è limitato a una riorganizzazione spaziale, ma ha inciso profondamente sulla tessitura sociale, economica e morale del demos. Se l'urbanistica tradizionale, erede di una sapienza millenaria che da Ippodamo di Mileto giungeva fino alla città pre-industriale, si fondava su un'intrinseca armonia tra l'oikos e il kosmos, i nuovi paradigmi del Novecento hanno sancito un'ascesa dell'hybris tecnologica e razionalista, un'ambizione di dominare il territorio senza riconoscerne la profonda vulnerabilità e le intrinseche complessità geologiche. Il modernismo urbanistico, emerso nel solco del positivismo e della fede cieca nel progresso scientifico, ha concepito la città come un'entità da ri-progettare ex novo su base geometrica e funzionale. Sotto l'egida di una presunta efficienza e igiene sociale, si è operata una vera e propria tabula rasa delle specificità locali, delle stratificazioni storiche e delle consuetudini comunitarie. Le città si sono trasformate in agglomerati di funzioni separate: aree residenziali, zone industriali e CBD (Central Business District) disconnessi e collegati da arterie stradali, una configurazione che ha de-territorializzato l'esperienza umana, riducendola a un mero attraversamento di spazi anonimi. La forma architettonica, pur ambiziosa e visivamente imponente, ha spesso prevalso sulla sostanza esistenziale. La trasparenza del vetro, il rigore del cemento, l'audacia delle linee rette, se da un lato esprimevano una fiducia utopica in un futuro senza limiti, dall'altro hanno eretto mura invisibili tra gli individui, disgregando il senso di comunità e impoverendo la vita pubblica, che si è ritirata dai "non-luoghi" del modernismo per rifugiarsi in spazi privati e isolati. Questo processo di alienazione topologica è stato amplificato da una speculazione fondiaria agita da un capitalismo rentier (rendita) che ha sfruttato le debolezze normative e la connivenza del potere politico. Le aree agricole, custodi di una millenaria morfologia agraria e di un insostituibile patrimonio di biodiversità, sono state convertite in suolo edificabile, alimentando un'entropia urbana che ha compromesso la matrice territoriale. La rimozione delle fasce tampone vegetali, lo spianamento dei pendii e la cementificazione massiccia hanno innescato un'accelerazione di processi geomorfologici che il paesaggio, nel suo equilibrio dinamico, aveva millenariamente assorbito. Il risultato è un incremento esponenziale della vulnerabilità idrogeologica e geologica, con eventi franosi e alluvionali che non sono più anomalie, ma manifestazioni endemiche di un'alterazione sistemica. L'urbanizzazione modernista, e la sua successiva deriva post-modernista, ha trovato una giustificazione ideologica in una pseudo-scientificità che ha manipolato concetti ecologici e filosofici. Si è assistito a una strumentalizzazione del "verde" e della sostenibilità, usati come paravento retorico per mascherare un continuo processo di sacrificio ecologico in nome della crescita. Le teorie urbanistiche, spesso basate su modelli matematici riduttivi e privi di una profonda comprensione delle interconnessioni sistemiche (ambiente- economia-società), hanno generato una pianificazione che non solo ignora la storicità dei luoghi, ma disconosce anche la realtà geofisica. In un'epoca di profonda crisi ecologica e sociale, l'urbanizzazione modernista e post- modernista ha rivelato la sua intrinseca fragilità, un fallimento strutturale radicato nella scissione tra la progettazione antropica e la realtà geofisica del territorio. È in questo contesto di disordine e degrado che si rende necessaria una rifondazione totale dei principi su cui si basano la pianificazione e lo sviluppo. L'idea di una "visione olistica" che mescola in modo indistinto discipline diverse non è sufficiente. Al contrario, la fondamentale autorità e competenza della geologia devono diventare la bussola per una nuova urbanistica. Non si tratta di una semplice collaborazione, ma di una ridefinizione della priorità delle conoscenze, dove la geologia emerge come una scienza chiave e direttiva. Sono i geologi a possedere le chiavi di lettura più profonde e accurate per l'interpretazione del territorio. Le loro competenze non si limitano a essere un semplice contributo tecnico, ma rappresentano la conoscenza fondamentale per ripristinare l'equilibrio termodinamico e l'integrità del suolo. La comprensione approfondita della geostoria, della geografia, della geomorfologia, della pedologia e dell'idrologia è un prerequisito indispensabile che nessuna altra disciplina possiede con la stessa profondità e specificità. Solo i geologi possono leggere i segni del territorio, decifrare la sua storia evolutiva e prevedere le sue risposte a un'azione antropica, come l'alterazione del ciclo dell'acqua, la destabilizzazione dei versanti, l'erosione del suolo e la subsidenza. Questi non sono "problemi ambientali" generici, ma manifestazioni dirette di un'interferenza con processi geologici in atto. Qualsiasi tentativo di ripristino dell'equilibrio territoriale che non parta da una rigorosa analisi geologica è destinato a fallire, replicando gli errori del passato. Pertanto, la formazione delle future generazioni di professionisti dovrebbe mirare a una profonda considerazione dei loro progetti in funzione delle direttive e dei vincoli imposti dalla scienza geologica. Le conseguenze di questo degrado sono multidimensionali. A livello sociale, si assiste a un'acutizzazione delle disuguaglianze spaziali. La gentrificazione, corollario spesso inevitabile di certi progetti di riqualificazione, spinge le fasce sociali più vulnerabili ai margini della città, creando ghetti e periferie prive di servizi, accentuando un processo di marginalizzazione socio-spaziale. A livello morale, si verifica una crisi di responsabilità sociale. La decontestualizzazione del progetto urbano dalla vita reale delle comunità porta a una disaffezione, a una perdita di senso di appartenenza e a una erosione del legame civico. Le decisioni vengono prese in stanze dei bottoni lontane dalla vita quotidiana delle persone, in un circuito di poteri economici e politici che non risponde alle esigenze del "bene comune". In questo scenario di disgregazione, il concetto di Sobornost, mutuato dalla filosofia russa, emerge come un faro di speranza. Esso non si limita a una semplice "cooperazione", ma evoca un'unità spirituale, una comunione di intenti e un senso di responsabilità collettiva che trascende il puro individualismo. L'urbanistica modernista e post-modernista, con la sua enfasi sull'efficienza e sulla privatizzazione dello spazio, ha scientemente (o per ignoranza) violato questo principio. La violazione del principio di Sobornost si riflette in modo drammatico nel modello economico territoriale prevalente. L'attuale sistema si configura come un modello a drenaggio, in cui il valore e le risorse finanziarie vengono costantemente estratte dalle periferie e dai comuni minori per essere concentrate nei grandi centri economici, dove opera un mercato lineare dominato principalmente dalla coppia Imprenditore-Banca. Questa configurazione riduce l'economia locale a un bacino passivo, privo della reale facoltà di generare e trattenere prosperità in modo autonomo. L'isolamento, l'alienazione e la frammentazione del tessuto sociale sono le cicatrici invisibili di un modello di sviluppo che ha dimenticato che la città è, prima di tutto, una comunità di destino. È imperativo un cambio di paradigma che introduca un sistema economico policentrico e resiliente. A fianco del sistema finanziario lineare, deve essere incentivata la creazione di Banche Cooperative di Mutuo Soccorso Artigiano o analoghi strumenti finanziari comunitari per ogni comune o distretto locale. Tali istituti, fondati sull'etica della reciprocità e dell'investimento circolare, possono sostenere la micro-imprenditoria, l'artigianato e le economie di prossimità, garantendo che il capitale generato localmente venga reinvestito a beneficio della comunità. Lasciando alla stessa economia locale, e quindi al mercato circolare in senso lato, la responsabilità e la libertà di creare e gestire risorse economiche endogene, si può ottenere un conseguente e sostenibile incremento di prosperità per tutti i cittadini del territorio, ripristinando quel senso di appartenenza e responsabilità collettiva (il Sobornost) che l'urbanizzazione alienante aveva distrutto. Al contrario, le città storiche, dall'agorà greca al forum romanum, fino alle piazze rinascimentali, dimostrano una profonda comprensione del valore dello spazio pubblico come matrice di sobornost. Queste città erano organismi viventi, co-evoluti con il loro ambiente naturale e sociale, dove il tessuto urbano si adattava alla geomorfologia del territorio, sfruttando le risorse locali e rispettando i cicli naturali. La tradizione urbanistica pre-moderna, pur non priva di limiti, era intrinsecamente più sostenibile perché fondata su una cosmologia che riconosceva il valore del suolo, dell'acqua e dell'aria come beni comuni, non come mere merci da sfruttare. È impossibile comprendere a fondo la crisi dell'urbanizzazione moderna senza analizzarne le radici ideologiche. I regimi totalitari del XX secolo, in particolare il fascismo e il nazismo, hanno utilizzato il modernismo come strumento di propaganda e di controllo. Il razionalismo positivista ha fornito il pretesto "scientifico" per giustificare la distruzione dei vecchi quartieri e la creazione di una nuova città ordinata, simmetrica e gerarchica. Questa architettura del controllo era l'incarnazione di una filosofia che vedeva l'uomo come un'appendice della macchina statale, un ingranaggio in un meccanismo efficiente ma disumano. Questa filosofia di de-umanizzazione ha avuto conseguenze devastanti. La spinta alla modernizzazione, camuffata da una presunta necessità di igiene e progresso, ha spesso portato alla demolizione di quartieri storici, all'espulsione delle comunità residenti e alla distruzione di un patrimonio di conoscenze e tradizioni. La speculazione immobiliare ha prosperato in questo contesto, trasformando il suolo in un bene di pura rendita, senza alcun riguardo per le funzioni agricole, artigianali o sociali che esso svolgeva. Il risultato è un paesaggio frammentato, sradicato e vulnerabile, dove la crisi etica si riflette in una crisi ecologica. Per superare questa crisi, è necessario un profondo cambiamento di paradigma. L'urbanistica del futuro non può più essere concepita come un mero atto di edificazione, ma come un processo di co-evoluzione tra l'uomo e il suo ambiente. Questo richiede un ritorno a un'etica topologica, che riconosca il valore intrinseco del suolo, delle risorse naturali e della storia dei luoghi. È necessario abbandonare il modello della crescita illimitata e abbracciare quello della resilienza, della sostenibilità e della circolarità, in un percorso di riqualificazione territoriale che deve necessariamente muovere dalla comprensione della geografia e della geologia. La storia, la geologia e la filosofia ci insegnano che il benessere dell'uomo è indissolubilmente legato alla salute del pianeta. La sfida è quella di creare città che siano non solo macchine per abitare, ma veri e propri ecosistemi sociali, in armonia con la natura e al servizio del "bene comune".